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sommario > Capitolo 6. [M. Michelino:1970-1983 - La lotta di classe nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni]

IL LICENZIAMENTO DI 61 OPERAI ALLA FIAT

L’acuirsi della crisi genera forti contrasti sociali, il profitto va salvaguardato a qualunque costo.
Si scatena la campagna contro l’assenteista, il violento, il terrorista in fabbrica.

61 lavoratori vengono licenziati alla Fiat di Torino, altri all’Alfa di Arese e alla Magneti Marelli a Milano.
Alcuni di loro, arrestati con l’accusa di appartenenza alle Brigate Rosse, si dichiarano prigionieri politici.

Questo fatto viene usato come un alibi dallo stato per colpire tutti i lavoratori che si battono coerentemente contro lo sfruttamento. Ciò crea uno sbandamento in alcuni gruppi operai, ma anche la necessità per i proletari coscienti di porre all’ordine del giorno il problema dell’organizzazione di classe.

Alcuni mesi dopo, la sentenza dei giudici di Torino reciterà chiaramente il motivo della loro espulsione dalla FIAT: ”.... gli operai licenziati contribuivano ad aumentare il clima di conflittualità in fabbrica con gravi conseguenze sui livelli di produttività in un settore decisivo dell’economia”.



La risposta ai 61 licenziamenti

La FIAT, dopo aver avvertito in anticipo PCI e sindacati della sua intenzione di licenziare circa 80 lavoratori, concordò in un incontro segreto la lista dei licenziati, ridimensionandola in base alle osservazioni dei sindacati e del PCI. Così la lista, depurata e concordata, stabiliva in 61 i dipendenti da licenziare con il pretesto di connivenza con il terrorismo.

Giuliano Ferrara (a quel tempo dirigente del PCI di Torino) ha confermato il sospetto di un’intesa che già circolava all’epoca in un’intervista rilasciata durante la trasmissione televisiva “Porta a porta”, e riportata dal Corriere della Sera del 14 ottobre 2000.
Nella stessa trasmissione Cesare Romiti, l’allora amministratore delegato della Fiat, confermò che: “la Fiat avvertì in anticipo i vertici sindacali dell’intenzione di licenziare”.

Ma veniamo ai fatti:
il 9 ottobre 1979 a 61 lavoratori della Fiat Mirafiori, Rivalta e della Lancia di Chivasso vengono spedite lettere di licenziamento.
Appena si sparge la notizia in alcuni reparti di Rivalta la risposta degli operai è immediata.
Gli scioperi scoppiano, alcuni spontanei, altri organizzati dagli stessi operai licenziati, tra i lavoratori c’è molta rabbia ma anche molto disorientamento.
La FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici, il sindacato unitario CGIL-CISL-UIL) dichiara tre ore di sciopero per mercoledì 1° novembre , ma la mattina, prima dello sciopero, diffonde un volantino contro il terrorismo.

Durante le assemblee il dibattito viene incentrato dai sindacati sulla violenza in fabbrica, i sindacalisti sostengono che la Fiat avrebbe “prove” contro i licenziati.
Nonostante la campagna forcaiola, l’assemblea del 1° turno di Rivalta con oltre 2000 operai decide all’unanimità di continuare lo sciopero oltre le tre ore sindacali e con la presenza dei licenziati in fabbrica la lotta continua con cortei e “spazzolate” interne.
Immediatamente la FLM ed i suoi delegati sabotano la lotta, cercando di isolare i 61 lavoratori licenziati. Solo in pochi altri reparti la lotta prosegue sino a fine turno.

Alla Lancia di Chivasso succede la stessa cosa, nella giornata di mercoledì lo sciopero prosegue sino a fine turno, ma i cortei interni e gli scioperi organizzati insieme ai licenziati continueranno anche nei giorni seguenti.
Questi episodi di risposta operaia però, dopo la fiammata iniziale, non ebbero seguito. Non si riuscì a dare continuità ed organizzazione alla lotta.
Il ruolo di “pompiere” del sindacato fu reso evidente dal fatto che, oltre le tre ore di sciopero di mercoledì 10, venne indetto un solo sciopero di due ore al Palasport martedì 23 ottobre.

A quel punto scende in campo anche Lama, che dichiara che il sindacato aspetterà di conoscere le prove di Agnelli, perché “il sindacato difenderà solo gli operai accusati ingiustamente”.
Questa posizione viene fatta propria dalla FLM e dal PCI e il licenziamento dei 61 apre la strada ai licenziamenti di massa.

I 35 giorni di lotta alla Fiat

Un anno dopo, il 10 settembre 1980, a Roma avviene la rottura delle trattative tra FLM e FIAT sulla cassa integrazione.
L’11 settembre 1980 la Fiat annuncia 14.469 licenziamenti. Subito gli operai del 1° turno di Mirafiori proclamano 8 ore di sciopero. La lotta si estende e si trasforma nei giorni successivi in lotta ad oltranza. Lo scontro si acutizza, si fanno picchetti permanenti davanti a tutte le portinerie ed il PCI soffia sulla protesta operaia, usando questa lotta per i suoi scopi elettorali.

Intanto, il 27 settembre, il governo Cossiga è costretto a dimettersi e la Fiat sospende i licenziamenti per “..spirito di responsabilità”. A questo punto i sindacati ritirano lo sciopero generale proclamato per lunedì 29 settembre e la Fiat annuncia per il 2 ottobre la cassa integrazione per 23.000 lavoratori. Il 30 settembre l’assemblea dei delegati decide di proseguire la lotta e si continua con il blocco totale dei cancelli.

Ma come la storia del movimento operaio insegna, una forma di lotta ad oltranza, confinata in fabbrica, alla lunga è perdente se rimane solo nell’ambito sindacale. Infatti con il passare dei giorni le difficoltà degli scioperanti aumentavano mentre diminuivano gli operai attivi ai picchetti. Per far fronte alla stanchezza e alla rassegnazione il sindacato ed il PCI chiamarono, di rinforzo alla lotta, delegati da tutte le città.

Per 35 giorni, pullman di delegati partivano tutte le mattine dalle città del nord, in particolare dalla zona di Sesto San Giovanni, Milano e Genova con destinazione Torino.
Le ronde ed i picchetti degli scioperanti, guardati a vista dalla polizia, si scontravano spesso con gruppi di crumiri organizzati da capi e leccapiedi della direzione che cercavano di sfondare i picchetti rivendicando il “loro diritto al lavoro”.
Intanto la fermata della produzione alla Fiat dà un duro colpo ad Agnelli, colpendolo nel suo più intimo sentimento: il profitto (o il portafoglio, come dicevano scherzosamente i lavoratori ai picchetti dei cancelli Fiat).

La situazione stava diventando non più tollerabile, ormai anche il PCI e il sindacato stavano cercando un pretesto per chiudere lo sciopero. La direzione Fiat decise di scendere direttamente in campo organizzando capi, impiegati, bottegai. Tutta la Confindustria, padroni e padroncini dell’indotto Fiat, e molti lavoratori diventati crumiri o resi crumiri dalla paura della perdita del posto di lavoro, si mobilitarono.

Il risultato del lavoro svolto dalla Fiat fu una imponente manifestazione per le vie di Torino. La mattina del 14 ottobre 1980 il coordinamento dei capi e dei quadri intermedi convocava una manifestazione al teatro Nuovo contro il blocco dei cancelli. Migliaia di persone intervengono, 15.000 secondo i telegiornali, 30.000 titolerà La Stampa, mentre Repubblica spara la cifra di 40.000. La manifestazione, infine, passerà alla storia come la “marcia dei 40mila”.

Questa manifestazione fornì l’alibi a sindacato e PCI per capitolare definitivamente.
Il 15 ottobre, mentre Fiat e sindacati firmano a Roma l’accordo che prevede la cassa integrazione per 23.000 lavoratori e la conseguente riapertura della fabbrica, al Cinema Smeraldo di Torino centinaia di delegati e lavoratori Fiat premono per entrare: sul palco Benvenuto (UIL), Lama e Galli (CGIL)- che hanno già preso la decisione di soffocare la lotta - cercano in tutti i modi di far accettare ai delegati operai l’accordo che prevede la loro resa. Nonostante si sforzino di indorare la pillola, sostenendo che “… la Fiat provvederà a richiamare dalla cassa integrazione guadagni, per il loro reinserimento, quei lavoratori che al 30 giugno 1983 si troveranno ancora in integrazione salariale”, dopo 8 ore di discussione il Consiglio dei delegati Fiat ed i lavoratori presenti approvano a maggioranza una mozione in cui respingono l’accordo. Vista l’aria che tira i massimi dirigenti sindacali presenti, in barba a tutte le chiacchiere sulla democrazia, abbandonano la sala prima del voto.
Il giorno dopo, il 16 ottobre 1980, l’accordo messo in votazione dalle assemblee di fabbrica fu respinto - contro ogni previsione - dalla maggioranza degli operai.
Quel giorno, il 16 ottobre, fu una data storica sotto molti aspetti. Per la prima volta i massimi dirigenti sindacali – Lama, Carniti, Benvenuto e altri sindacalisti - vengono malmenati dagli operai e costretti a scappare scortati dalla polizia. I giornali riporteranno la notizia che coloro che hanno respinto gli accordi tra Fiat e sindacato non erano operai, ma provocatori esterni infiltrati nell’assemblea di fabbrica.

Questo episodio ebbe una grande importanza nella presa di coscienza di una parte della classe operaia italiana, come dimostrano i documenti che riportiamo.
Dopo 35 giorni di sciopero ad oltranza, la capitolazione del sindacato segnerà la sconfitta della classe operaia e un periodo di riflusso di tutto il movimento: prima con i licenziamenti per assenteismo che colpiscono ammalati, invalidi, donne in maternità, ricoverati in ospedale, poi avviando nel settembre del 1980 la procedura del licenziamento di 14.469 dipendenti.
Da un giorno all’altro migliaia di lavoratori diventati “esuberi” furono espulsi dai luoghi di lavoro e condannati all’emarginazione sociale.

Molti si sentirono traditi da CGIL-CISL-UIL.
Dopo anni di lavoro e sacrifici in cui la vita dei lavoratori e dei loro familiari veniva decisa dai tempi e dai ritmi della fabbrica, ora la nuova situazione cambiava radicalmente il modo di vivere di migliaia di persone.

Con la perdita del lavoro molti perdevano anche la possibilità di pagare il mutuo della casa, alcuni subirono la doppia umiliazione di perdere la casa (ripresa dalle banche a garanzia del mutuo concesso) e il lavoro, non potendo più neanche mantenere i figli a scuola.
I problemi economici, sommati a quelli familiari e al fatto di essere fatti passare come “lazzaroni” da un’intensa campagna della stampa padronale, aggravarono le condizioni di vita di molti cassintegrati. I lavoratori, costretti a vivere la cassa integrazione e il licenziamento come problemi individuali o personali, pagarono molto pesantemente: secondo dati e documenti raccolti da studiosi borghesi, negli anni ‘80 a Torino si sono suicidati oltre 200 lavoratori Fiat cassintegrati.
Anche di questi delitti dovrà rendere conto il sistema capitalista.




Volantino 1
61 OPERAI LICENZIATI ALLA FIAT

“Le contestiamo formalmente il comportamento da Lei sin qui tenuto, consistente nell’aver fornito una prestazione di lavoro non rispondente ai principi della diligenza, della correttezza e della buona fede; e nell’avere costantemente mantenuto comportamenti non consoni ai principi della civile convivenza sul luogo di lavoro.”
Questo il motivo secondo le stesse parole con cui inizia la lettera di licenziamento.
Ma qual è il reale motivo che spinge la FIAT a questo che è l’ultimo e il più grave di una serie di atti repressivi? Gli scioperi, la protesta operaia fanno perdere produzione e non permettono l’aumento della produttività! Per la direzione Fiat è necessario elevare la produttività degli operai per abbassare il costo di produzione delle auto, così potranno spuntarla con la concorrenza tedesca e americana e avranno la possibilità di aumentare i loro profitti.
Ma cosa vuol dire, per noi operai aumento della produttività? Più pezzi, più macchine in minor tempo, più lavoro gratis per Agnelli allo stesso salario, meno pause, più fatica; in definitiva Agnelli vuole aumentare il nostro sfruttamento per elevare i suoi profitti. Per questo in fabbrica deve regnare il massimo ordine e mentre cerca da un lato, di liquidare tutti gli operai che si ribellano all’aumento dello sfruttamento, allo stesso tempo cerca di instaurare un clima di intimidazione che convinca gli altri a stare tranquilli e a subire in silenzio.
Le leggi della concorrenza non ammettono mezze misure

Cosa hanno da dire ora quei sindacalisti che hanno sostenuto che la difesa dell’economia nazionale e l’aumento della produttività erano nell’interesse degli operai? Ora che gli investimenti fatti hanno portato ad altri licenziamenti di operai (come alla Olivetti)! Ecco dove ha portato l’impegno del PCI e di Lama ad appoggiare Agnelli nel suo piano per salvare l’economia nazionale instaurando un clima di austerità (miseria) per gli operai.

Eppure, compagni, non abbiamo via di scelta. Mentre i padroni serrano i ranghi insieme ai loro accoliti in Parlamento e nello Stato contro di noi, noi operai dobbiamo constatare che dobbiamo batterci pur nella nostra debolezza di organizzazione. Nessuno oggi ci difende, ognuno dei signori che ieri sembravano appoggiarci a parole, al momento triste ha tirato i remi in barca e guarda con preoccupazione a noi desideroso di tenerci fermi, pronto a tacciarci di antinazionali, ignoranza, corporativi.

Nessuno ci dice, però, che è giusto scendere in lotta subito. Noi lo vediamo sempre più in maniera pressante, dove è possibile, e vogliamo farlo.
Mentre i prezzi di tutti le merci salgono incessantemente per garantire ad industriali, commercianti, gerarchie dello Stato, utili e posizioni elevate, la merce operaio si vende sul mercato e sul posto di lavoro a prezzo sempre più basso.
Né ci solleva dalle nostre condizioni la strategia dell’azzoppamento (al più porterà ad un’indennità di rischio, con aumento di stipendio, per i probabili azzoppati),
Egualmente bisogna respingere, la posizione di chi sostiene: “La FIAT provi le sue accuse”, che vuole trasformare lo scontro in un dibattito a base di cavilli giudiziari in cui la FIAT fa da pubblica accusa, il sindacato da avvocato difensore e gli operai da imputati e spettatori.

Oggi l’unica strada e quella della più vasta ed intensa mobilitazione di massa.
Bisogna avere chiaro che lasciar passare questi licenziamenti significa per noi un passo avanti verso un maggiore sfruttamento e l’aumento della miseria.

Ottobre 1979 Collettivo Operaio Fiat



Volantino 2

OPERAI!

Operai,
la crisi non trova soluzione e può precipitare in qualsiasi momento. I padroni hanno accumulato una massa di capitali che non possono riprodursi ai saggi di profitto precedenti. La concorrenza fra capitalisti di diversi paesi spinge rapidamente ad una nuova guerra.

I sacrifici che ci hanno imposto erano solo una piccola parte di quelli che ora devono imporci.
Per battere la concorrenza i padroni devono consumare più produttivamente la nostra pelle: salari di fame, licenziamenti, intensificazione dei ritmi. Eliminare ogni resistenza in fabbrica ne è la condizione: ordine e produttività sono le bandiere innalzate in difesa del profitto.

Agnelli e l’industria di stato indicano la strada: 61 operai licenziati alla Fiat, decine all’Alfa. I primi minavano la “civile convivenza” in fabbrica, i secondi si ammalavano spesso. Le campagne su terrorismo e assenteismo servono da copertura alla repressione.

CHI DIFENDE GLI OPERAI IN QUESTA SITUAZIONE?

Il sindacato e le aristocrazie di fabbrica che rappresenta hanno assunto in pieno la difesa del capitalismo italiano: più sacrifici, più produttività per la salvezza dell’economia nazionale. Di fronte ai licenziamenti chiedono le “prove”, perché sia la magistratura dei padroni a giudicare. Ma non è difficile trovarle: qualunque lotta che ponga dei limiti al nostro consumo mina la civile convivenza tra sfruttati e sfruttatori. Il sindacato difende solo i privilegi acquisiti svendendo i nostri interessi!

I cosiddetti “partiti operai” che controllano il sindacato si uniscono con tutto il parlamento su un punto centrale: garantire ai padroni le condizioni ideali per i loro profitti.
Non possiamo farci trascinare impreparati nel precipitare della crisi. Il capitale ci propone maggiore sfruttamento, licenziamenti in massa, sottomissione all’economia di guerra, inquadramento sotto le bandiere del capitale per sparare sugli operai di altri paesi.

ORGANIZZARSI
I gruppi operai delle diverse fabbriche devono collegarsi, valutare la situazione, confrontarsi su un compito non più rinviabile: darsi una organizzazione politica indipendente per lottare contro il capitale, emanciparsi dallo sfruttamento, eliminare le classi.

GLI OPERAI DI TUTTI I PAESI HANNO GLI STESSI INTERESSI.

Gruppo operaio della Fiat (Mirafiori e Rivalta)
Gruppo operaio Breda Fucine
Collettivo operaio Falck Unione
Gruppo operaio Alfa Arese
Operai della Borletti
Operai dell’Italsider (Genova)
Novembre 1979



Volantino 3

CONFERENZA DEI GRUPPI OPERAI SULLA FIAT

La FIAT ha rimandato alla fine dell’anno il licenziamento in massa degli operai “eccedenti”.
Intanto ne mette in cassa integrazione 24.000.
Ora si parla, da una parte, del “grande senso di responsabilità” di Agnelli, dall’altra di “importante vittoria” dovuta alla forza e compattezza del sindacato. In realtà, l’ingloriosa caduta del governo a opera della stessa maggioranza e la demagogica azione del PCI, disposto a soffiare sul fuoco della ribellione operaia per entrare nei gabinetti ministeriali, hanno consigliato ad Agnelli di rimandare i provvedimenti a tempi migliori. Senza il PCI non si governa lo sfruttamento operaio; ma non appena il quadro politico sarà più stabile e si potrà contare sul costruttivo appoggio di questo partito, i licenziamenti si riproporranno all’ordine del giorno.

Nessuna illusione dunque sulle dichiarazioni intransigenti dei nostri sindacalisti. La cassa integrazione è già l’anticamera dei licenziamenti, dobbiamo utilizzare la lotta contro di essa, mentre le forze politiche cercano di accordarsi, per valutare precisamente la situazione, costruire rapidamente organismi operai in ogni fabbrica in grado di organizzare la difesa e collegarsi con gli operai di altre fabbriche.

Deve essere chiaro fin d’ora che delegare al collaborazionismo sindacale la gestione della lotta porterà inevitabilmente alla sconfitta, alla esecuzione dei licenziamenti.

Cosa chiede infatti Agnelli? E cosa risponde il sindacato?

Di fronte alla crisi di sovrapproduzione e alla tendenza dei profitti a non svilupparsi ai precedenti ritmi, i capitalisti italiani hanno bisogno di eliminare parte degli operai dei settori stagnanti e sfruttare più intensamente quelli dei settori che tirano. Devono aumentare la produttività del lavoro per rendere più competitive le proprie merci e scalzare dal mercato i concorrenti stranieri.

Il sindacato ha fatto propria la logica del profitto e della concorrenza capitalistica. Da anni cerca di convincerci che con i sacrifici, aumentando la competitività dei nostri padroni, sarà possibile uscire dalla crisi e aumentare l’occupazione. Questo in ogni paese il ruolo che si è assunto il sindacato: legare i rispettivi operai ai destini dell’economia capitalistica trascinandoli nella disastrosa guerra dei mercati, incitandoli alla concorrenza contro gli operai degli altri paesi. Così in tutto il mondo, mentre gli operai sono costretti a lavorare più intensamente, il mercato è saturo di merci e di braccia da lavoro.

In cosa si differenziano dunque le posizioni di Agnelli e del sindacato?

Oltre ai problemi della produzione i padroni hanno anche bisogno del sostegno diretto dello stato nella guerra commerciale internazionale: massicci investimenti per finanziare la ristrutturazione e alleviare dal rischio i singoli capitalisti, incentivi all’esportazione, dazi e misure protezionistiche contro le merci “straniere” .

I 15.000 licenziamenti dovevano anche servire come ricatto traumatizzante verso il mondo politico e l’opinione pubblica per accelerare i tempi dei piani di settore. Per questo il discorso nudo e crudo dei licenziamenti senza tattiche e mediazioni.
Il sindacato invece propone la strategia del licenziamento indolore, scaglionato nel tempo per poter attutire e contenere la protesta operaia. Esso stesso ha fornito l’articolo contrattuale sulla mobilità cui si appella Agnelli. “Le aziende hanno diritto di licenziare”, affermava Lama in una famosa intervista. Ma 15.000 operai sono difficili da controllare dopo che per anni li si è costretti ai sacrifici in nome dell’occupazione e mentre decine di altre fabbriche devono liberarsi degli “esuberanti”: prepensionamenti, passaggio da un posto di lavoro a un altro, blocco delle assunzioni, cassa integrazione a rotazione, sono semplici palliativi.

Di fatto il precipitare della crisi capitalistica impone un drastico ridimensionamento delle forze produttive; il sindacato - accettando la logica del profitto - sa di doverne accettare anche le leggi di fondo, compresi i licenziamenti in massa.

Perché dunque il sindacato è cosi intransigente sulle sue proposte?

E’ chiaro che nei settori da ristrutturare, nella massa degli operai più sfruttati, ci sono anche frange d’aristocrazia operaia, capi e capetti, quadri politici, tecnici ecc.: questa la base sociale del sindacato, sono quelli che per anni hanno predicato la salvezza dell’economia nazionale, dei sacrifici, della produttività, ricevendo in cambio le briciole dei sovrapprofitti e una adeguata collocazione nel comando di fabbrica.

Ma i padroni nei momenti difficili non possono essere riconoscenti con tutti i loro cani da guardia; a tutela di questi si rivolge principalmente la proposta sindacale. La rotazione della cassa integrazione serve proprio a scremare via via questi elementi e avere tempo per collocarli in altri punti del ciclo; il prepensionamento può essere contrattato sulla base degli alti stipendi percepiti e di cospicue buonuscite; il passaggio da un posto di lavoro a un altro è possibile. Possono contare sul mestiere, la dimostrata fedeltà, le conoscenze politiche.
Per essi il mercato del lavoro è sempre aperto. Per questa si schierano con la proposta sindacale, hanno interesse che la situazione non precipiti, invitano gli operai alla calma per contrattare tranquillamente il loro reinserimento. Questo è il principale nemico interno alla lotta proprio mentre si dichiara: “tutti uniti contro i licenziamenti”.
Ma per la gran massa degli operai di catena e degli strati più sfruttati, sia la proposta di Agnelli che quella del sindacato aprono solo la prospettiva della disoccupazione. La loro difesa non è contemplata da nessun partito perché nessuna mediazione di interessi è possibile.
La salvezza del capitale passa attraverso la loro rovina, la loro emancipazione è possibile solo eliminando lo sfruttamento capitalistico.

Operai, per questo ogni possibilità di difesa oggi passa attraverso la capacità di organizzarci come classe indipendente, su propri interessi e con un proprio programma.
Oggi, anche la lotta contro i licenziamenti può essere coerente solo se è conseguente alla lotta contro il capitalismo e il suo sistema di sfruttamento.

La sovrapproduzione capitalistica dimostra che questo modo di produzione si muove dentro contrasti insanabili, che la proprietà privata dei mezzi di produzione e di distribuzione mette un limite allo stesso sviluppo della ricchezza sociale. Si produce solo ciò che fa guadagnare il padrone. I piazzali di Agnelli traboccano di macchine invendute, mentre noi siamo costretti alla miseria per aver troppo prodotto.

Organizzarsi, costruire in ogni fabbrica organismi operai, collegarsi con le altre fabbriche. Questa è oggi l’unica possibilità per rispondere agli attacchi del capitale e all’operazione di controllo dei sindacati.

DOMENICA 6 OTTOBRE
presso il centro sociale Leoncavallo a Milano - Via Leoncavallo (Lambrate)
 - riunione dei gruppi operai delle fabbriche per approfondire questi temi e per portare avanti il processo di coordinamento dei gruppi di fabbrica.

Gruppi di fabbrica: Breda F. - Falck U. - Borletti - Ivisc - Innocenti - Alfa A.

Parteciperanno anche alcuni operai della Mirafiori e di Rivalta
1° ottobre 1980


Assemblea operaia alla Breda Fucine